Giovanni Scansani docente a contratto in Università Cattolica, già CEO di società appartenenti a gruppi internazionali attivi nel settore dei servizi per il benessere individuale ed organizzativo, consulente direzionale e co-autore del libro «Smart Working Reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie» (Vita e Pensiero) ci spiega quando si possa veramente parlare di Smart Working, segnalando pro e contro, analizzando alcune case history e approfondendo la necessità di un cambio di paradigma nelle aziende, senza improvvisazione.

Prima del lockdown del 2020 il concetto di “Smart Working” era un concetto astratto e per lo più sconosciuto. La pandemia ha improvvisamente catapultato milioni di lavoratori nel cosiddetto Smart Working.

Ciò che durante il lockdown (ed ancora oggi) hanno vissuto i lavoratori e le lavoratrici è stato dapprima “lavoro da remoto forzato” e poi una forma di “lavoro domiciliare” simile al telelavoro senza una corretta progettazione e senza l’obiettivo di aumentare il benessere e la produttività, bensì solo nel tentativo di contenere il virus, permettendo il proseguimento da remoto di tutte le attività di lavoro possibili.

Con facile entusiasmo, “Smart Working Euphoria”, secondo la definizione di Giovanni Scansani, l’esperienza del “lavoro forzato da casa” è stata considerata come una rivoluzione organizzativa di cui in Italia sentivamo il bisogno e sono stati immaginati contesti futuri che mal si conciliano non solo con le esigenze organizzative delle imprese, ma anche con le stesse esigenze relazionali e organizzative delle persone, in un difficile equilibrio tra vita e lavoro.  

In questi due anni, dunque, sono mancati alcuni elementi qualificanti del “lavoro agile”: primo tra tutti la volontarietà, ma più in generale una riprogettazione organizzativa complessiva.

Dunque, il lavoro agile che rappresentava quasi un’utopia prima del lockdown, è oggi realtà, ma non sempre così «smart». Da dove si deve ripartire per definire - o meglio, ri-definire - il lavoro? Come immaginare nuovi equilibri che non sono solo quelli individuali (conciliazione vita-lavoro), ma collettivi?

L’evoluzione tecnologica e la trasformazione del lavoro, processi già in atto prima della pandemia e accelerati dall’emergenza sanitaria, rappresentano le premesse dei processi trasformativi delle aziende e del passaggio al lavoro non più basato su mansioni rigide e su luoghi e orari prefissati, ma caratterizzato dalla partecipazione delle persone che diventano protagoniste di una ridefinizione e riprogettazione del lavoro in maniera diretta, quindi di una coprogettazione del lavoro che possa dirsi davvero “smart” in organizzazioni, a loro volta, realmente “agili”. Il lavoro agile, infatti, è regolamentato da un accordo individuale che le parti (impresa/ lavoratore) hanno a disposizione per co-progettare il lavoro, condividerne gli obiettivi e fissare i risultati. Ciò eviterà che il lavoro, anche a distanza, sia organizzato in modo che non si intacchi quel “capitale sociale” che è rappresentato dai legami, dalle relazioni e dagli scambi che, sono alla base del “sapere collettivo” e del valore complessivo che nessuna impresa e nessun lavoratore deve perdere.

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