La ricchezza principale di un’impresa è insita in quel patrimonio di conoscenze, competenze e abilità che le consentono di costruire e sviluppare una propria identità e di assumere una posizione rilevante nel proprio mercato di riferimento. Senza ovviamente mai dimenticare il ruolo fondamentale dei suoi interpreti, il personale per l’appunto.
Tale patrimonio, a cui ci si riferisce con la ben nota espressione know-how aziendale, permette infatti all’impresa di crescere acquisendo un vantaggio competitivo rispetto ai propri competitor e sviluppando un proprio, esclusivo modello di business.
Più precisamente, con know-how aziendale si fa riferimento a quel complesso di «notizie attinenti ai metodi di progettazione, produzione e messa a punto dei beni prodotti che caratterizzano la struttura industriale» e, pertanto, al «patrimonio cognitivo e ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale» (Cass. Pen., Sez. V, n. 25008 del 18/05/2001), nonché, più genericamente, all’«intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico». (Cass. Pen., V sez., n. 16975 del 4 luglio 2020).
È evidente che tale patrimonio, alla luce del valore che è in grado di apportare all’azienda, necessita di essere adeguatamente salvaguardato e tutelato, in sede civile ma anche in sede penale, soprattutto in considerazione del grave danno che potrebbe derivare a chi ne è titolare nel momento in cui lo stesso dovesse essere utilizzato impropriamente o dovesse essere divulgato ad imprese concorrenti.
Sul piano civilistico, in aggiunta alla tutela offerta dal Codice Civile, e precisamente dalle norme che sanzionano la concorrenza sleale, il Codice della Proprietà Industriale consente all’impresa di tutelare efficacemente il proprio know-how aziendale al ricorrere di determinati presupposti, esaustivamente indicati dall’art. 98. Da ciò ne consegue che soltanto laddove il know-how aziendale possegga quei dati requisiti – ovvero segretezza, valore economico nonché sottoposizione del segreto ad adeguate misure di sicurezza – allora il titolare dello stesso avrà diritto a godere delle tutele offerte dal legislatore.
Di contro, come vedremo nel proseguo della disamina, la tutela del know-how aziendale in sede penalistica appare essere più ampia. A tal proposito si segnala una recente sentenza della Sezione V della Corte di Cassazione Penale, precisamente la n. 3211 del 26 gennaio 2024, con la quale sono stati enunciati alcuni importanti principi proprio in merito a tale tema, nonché, più in generale, in merito ai caratteri della tutela offerta dal diritto penale al know-how aziendale.
La richiamata sentenza fa seguito alla pronuncia con cui la Corte d’Appello di Trieste aveva ritenuto configurato in capo ai tre soggetti imputati il reato di cui all’art. 623 c.p., con riguardo alla rivelazione di segreti commerciali. Precisamente, in dibattimento era emerso, anche grazie alle dichiarazioni degli imputati, che gli stessi avessero utilizzato informazioni commerciali della società nella quale avevano precedentemente lavorato come dipendenti (facente parte di un gruppo dedito alla produzione di macchinari di pulizia e sterilizzazione per laboratori sanitari, farmaceutici e di ricerca) per predisporre le offerte commerciali dell’azienda dagli stessi costituita.
Come anticipato, la condotta poc’anzi esposta è stata ritenuta idonea ad integrare il reato di cui all’art. 623 c.p., che si ritiene configurato allorquando vi sia rivelazione, nonché impiego a proprio o altrui profitto, “di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche” da parte di un soggetto venuto a conoscenza degli stessi “per ragioni del suo stato o ufficio o della sua professione o arte”.
Nel caso di specie è stato appurato che i tre imputati avevano utilizzato, al fine di trarne un profitto, proprio dei segreti commerciali della società nella quale per anni avevano prestato la loro attività lavorativa; precisamente, è stato accertato che i soggetti coinvolti avevano utilizzato delle informazioni contenute in file informatici della società in questione al fine di sviluppare e mettere in commercio un prodotto avente caratteristiche analoghe a quello già commercializzato dalla prima società.
Il presupposto per l’operatività dell’art. 623 è infatti l’esistenza di un’attuale situazione di segretezza che si intende far permanere; precisamente, a tal proposito, la Cassazione, nella sentenza oggetto di analisi, ha affermato che l’oggetto della tutela offerta dall’art. 623 c.p. è il “segreto industriale inteso in senso lato, intendendosi per tale quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e, dunque, la compressione dei tempi di produzione».
Ma quand’è che sussiste il segreto la cui violazione comporta la configurabilità del reato previsto dagli articoli in esame?
Per individuare l’oggetto del “segreto” penalmente tutelabile non si può non partire dalla definizione data dall’ art. 98 del Codice della proprietà industriale, il quale, come anticipato, prevede che: «Per segreti commerciali si intendono le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:
a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi generalmente note o facilmente accessibili agli esperti e agli operatori del settore;
b) abbiano valore economico in quanto segrete;
c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.»
Tuttavia, la Suprema Corte, nella sentenza oggetto di analisi, richiamandosi a un principio già affermato nella sentenza della V Sezione della Cassazione Penale, n. 16975 del 11/02/2020, ha affermato che «la nozione di «segreti commerciali», oggetto del reato di cui all’art. 623 c.p., come modificato dall’art. 9, comma 2, d.lgs. 11 maggio 2018, non è assimilabile a quella, pur avente medesima denominazione, di cui all’art. 98 del d.lgs. 10 febbraio 2005 n.30 (codice della proprietà industriale), che richiede, ai fini della tutela, che le informazioni aziendali e commerciali ed esperienze sulle applicazioni tecnico industriali debbano avere i requisiti di segretezza e rilevanza economica ed essere soggette, da parte del legittimo detentore, a misure di protezione ragionevolmente adeguate, ma comprende, estendendo l’ambito di tutela penale, anche tutte quelle ulteriori informazioni su produzioni industriali e programmi commerciali, pur non rispondenti ai suddetti requisiti normativi, per le quali sia individuabile un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto».
Nonostante ciò, si deve comunque ritenere che l’art. 98 CPI possa sicuramente costituire un punto di riferimento per dare contenuto alla formula di «notizie destinate a rimanere segrete» di cui all’art. 623 c.p. In altre parole, «se l’art. 98 CPI non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie prevista dagli artt. 622 e 623 c.p., sembra ragionevole sostenere da un lato che, qualora il know-how possegga i requisiti previsti dall’art. 98 CPI, allo stesso potrà senz’altro accordarsi la tutela prevista dagli artt. 622 e 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto; dall’altro che, qualora non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 CPI, dovrà necessariamente individuarsi e motivarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto» (Cass. Pen., Sez. V., n. 16975/2020)
Alla luce di quanto sopra, appare evidente che la tutela penale del know-how aziendale abbia maglie più larghe di quelle tipiche della tutela civilistica. Venendo invece agli ulteriori principi affermati dalla Cassazione nella sentenza oggetto di analisi, è interessante rilevare come la Suprema Corte abbia ritenuto integrato il reato di cui all’art. 623 c.p. e, dunque, un’indebita utilizzazione del know-how aziendale, nonostante i tre imputati non avessero utilizzato e riprodotto integralmente il processo produttivo sviluppato dalla società nella quale avevano prestato la loro attività lavorativa.
Infatti, sancendo un principio di indubbia rilevanza, la Cassazione ha riconosciuto che “considerati i rilevanti e crescenti costi che si rendono necessari per la ricerca scientifica orientata allo sviluppo di tecnologie competitive su mercati ormai globali, il delitto di cui all'art. 623 cod. pen. debba ritenersi configurato tutte le volte che venga rivelato indebitamente un segreto che riguardi anche una sola parte del relativo processo produttivo, senza che sia dunque necessario che detta rivelazione attenga a tutte le componenti del prodotto medesimo.”
In particolare, riprendendo la sentenza n. 25174 del 07/06/2005, la V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affermato che: «ciò che assume rilievo nella delimitazione del concetto di notizia destinata al segreto e che vi siano comprese le operazioni fondamentali per la realizzazione dei prototipi di un determinato impianto, operazioni che costituiscano il "cuore" degli stessi e che siano il frutto della cognizione e della organizzazione della impresa».
Ancora, nella sentenza oggetto di commento la Suprema Corte si è pronunciata anche in merito all’utilizzo della tecnica del c.d. “reverse engineering”. In particolare, infatti tra le varie strategie difensive adottate dalla difesa degli imputati, vi era quella avente ad oggetto l’utilizzo, da parte degli stessi, proprio di tale tecnica. Per reverse engineering si intende un processo atto ad identificare le proprietà di un oggetto attraverso l’analisi completa di struttura, funzioni e operatività di tale elemento; in particolare, tale tecnica è anche conosciuta come “back engineering”, ovvero “progettazione al contrario”, in quanto al fine di risalire alle singole componenti per la realizzazione del prodotto si parte dall’osservazione del risultato finale, trasformato in un modello informatico.
Ebbene, la Cassazione ha affermato che tale tecnica «è un’attività rientrante nel novero dell’impiego di segreti industriali penalmente sanzionato dall’art. 623 cod. pen., in quanto sarebbe altrimenti facilmente elusa la tutela del segreto industriale riproducendo, anche ripetutamente, il prodotto di un’impresa che ha sviluppato, per l’ideazione dello stesso, complessi progetti di ricerca. Invero, la tecnica in questione non è che una sofisticata modalità di copia di un prodotto».
Alla luce di tutto quanto sopra e dei principi espressi dalla Cassazione nella sentenza analizzata, appare evidente come sempre di più il know-how aziendale venga considerato come uno dei principali asset aziendali, in grado di apportare un incremento di valore notevole all’azienda e pertanto indubbiamente meritevole di essere preservato, non soltanto mediante gli strumenti offerti dal diritto civile, ma anche mediante quelli offerti dal diritto penale. Tale ultima tipologia di tutela si pone, dunque, quale completamento della tutela già offerta sul piano civilistico, la quale, come abbiamo avuto modo di appurare, ha dei presupposti di operatività maggiormente definiti e risulta pertanto essere, in un certo qual senso, più onerosa per il legittimo titolare del segreto.
Proprio per tale ragione, si può affermare che la tutela del know-how aziendale offerta dal diritto penale costituisce un diverso e ulteriore strumento al servizio del legittimo detentore del segreto, il quale potrà avvalersi della stessa, non soltanto per intensificare il livello di protezione del proprio patrimonio di conoscenze, ma anche per fornire a quest’ultimo una tutela in quei casi in cui la stessa, sul piano civilistico, gli sarebbe preclusa.
A cura di Flaminia Pallini